Riflessioni personali

Bottai ci accompagna nella sua pittura con una serie di scritti autobiografici:

Bottai mentre dipinge la grande
opera
“Frammenti d’Egitto”

Dal subliminale: la mia ricerca

Mi rendo conto che non è facile avvicinarsi alle mie opere “Dal Subliminale” senza provare un senso di perplessità.
Credo che a questo può indurre un atteggiamento disattendo.

E’ certamente necessaria, una discreta dose d’attenzione ed una particolare disposizione d’animo per scoprirne il senso e le motivazioni espressive.

Non si può pensare di muoversi nel mondo dell’arte senza avere adeguati strumenti di conoscenza, per questo, da qualche tempo, ho cercato di risalire a quelli che possono considerarsi gli archetipi del pensiero.

Ho quindi posto attenzione alla filosofia Pitagorica che può considerarsi, a mio avviso, la culla del “razionalismo occidentale”;
da essa si è sviluppata quella trinità di vero, bello e buono che ha dominato a lungo la nostra civiltà ed ancora riverbera.
Il principio era quello che se il mondo era governato dalle leggi dell’intelletto che i sensi erano capaci di cogliere e tradurre reciprocamente, esse erano allora simultaneamente belle e vere, basate su leggi calcolabili, armoniche e simmetriche.

La “trinità pitagorica” comincia ad incrinarsi tuttavia già ai tempi di Platone, quando il vero ed il buono perdono la loro coincidenza col bello. Il monopolio della verità e del bene passa alla parte razionale dell’anima, mentre il bello, per quanto riguarda l’arte, riflette, al suo meglio, la cangiante, irrequieta, inconsapevole parte non razionale della stessa.

In effetti, nelle espressioni più riuscite, la poesia resta ancora conoscenza, il che non vuol dire verità, non rappresenta, infatti, un sapere relativo alla sfera del “logos”, bensi quella dei desideri e delle passioni.
Non offre nessun criterio per distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo.

L’inganno dell’arte non sta nell’affermare logicamente il falso, ma nel dare credibilità ai fantasmi del desiderio sottratto alle leggi della verità e del bene, nel rappresentare perspicuamente luoghi dell’anima non afferrabili dall’intelligenza, in modi che possono rinvigorire le passioni coinvolgendoci direttamente nelle seduzioni.

Approfondire letture di questo tipo mi ha portato a concludere che riprodurre, con tecnica più o meno raffinata degli oggetti visibili, non mi appagava più mentre appariva sempre più seducente quel mondo che si collocava oltre il visibile e che volevo indagare.

I poeti, in effetti, non si pongono il problema di dover piacere o compiacere qualcuno, ma semplicemente comunicano con le loro poesie ciò che hanno dentro, il mondo dei loro sogni. La difficoltà sta nel riuscire a leggere questo straordinario mondo soggettivo che ognuno di noi possiede. Non esiste, quindi, una verità oggettiva, non esiste un bello universale, forse esistono verità soggettive, le nostre certezze.

Il bello è certamente legato al “gusto” o all’immediatezza del “sentire”, in entrambi l’elemento di vaghezza per sfuggire all’arbitrio, cerca un difficile ancoraggio a “standard di gusto” che abbiano il carattere di universalità.

L’omnipervasivo paradigma della oggettività e della calcolabilità del bello ha plasmato una comunità omologandola con un processo d’educazione estetica molto parziale. Non è facile quindi proporre opere che indagano il mondo dell’inconscio.

Inconscio che una volta indagato dall’artista diventa autocosciente, mondo virtuale, fenomenologico dove l’individuo esamina le proprie azioni, le proprie fantasie.

Un mondo che esiste in una parte buia di noi, un mondo dietro lo specchio. Convinto che sperimentare è conoscere, è diventare consapevole, è essere vivi e che il colore è parte inscindibile dell’ordine dell’universo oltre che linguaggio universale senza frontiere.

Ho cercato di indagare questo luogo dell’anima con i mezzi che mi sono più congeniali rispondendo ad un bisogno di raccontare e raccontarsi.

Paolo Bottai, 1998

La percezione

Lussuria (2004)

Intendo sistematizzare alcune considerazioni che attengono ad uno studio che sto compiendo sulla “percezione”.

Per comprendere adeguatamente la questione occorre partire utilizzando alcune definizioni che sono necessarie per capire le conclusioni.
Mi sono rifatto quindi alla filosofia empirista e in particolare a Locke, Hume e Berkeley: essi sostenevano che la nostra coscienza è priva di contenuto se prima non abbiamo avuto esperienze sensoriali.
In sostanza essi fanno derivare tutta la nostra conoscenza del mondo da ciò che i sensi raccontano.
Aristotele fu il primo empirista, in opposizione a Platone, che sosteneva “non c’è niente nell’ intelletto che non sia stato prima nei sensi”.

Gli empiristi formularono questa ipotesi in opposizione alla filosofia razionalista imperante nel ‘600 la quale sosteneva che “l’uomo possiede idee innate presenti nella sua coscienza prima di qualsiasi esperienza sensoriale”.

Ho successivamente studiato i vari autori che hanno affrontato le questioni della percezione: Wittgenstein, Gibson, Kuhn, Hanson, Popper ecc. arrivando a questa conclusione: Se riteniamo che la percezione dipenda da regole inferenziali e dalla conoscenza, non è più possibile sostenere che sia correlata direttamente alla realtà che percepiamo. Se la percezione si fonda sulle esperienze passate memorizzate e se, anzi, sono proprio queste esperienze passate che costituiscono gran parte di ciò che sperimentiamo nel presente, allora la visione del realismo diretto non è proponibile.

Secondo questa proposizione il percorso verso la conoscenza è un percorso lineare in avanti, fatto di tappe ed esperienze.
In pittura chi si ostina a riprodurre il vero appare come un primitivo senza alcuna esperienza e senza alcuna conoscenza delle esperienze che si sono compiute in quel campo, dei cambiamenti, delle evoluzioni.

Evoluzioni e cambiamenti che ci sono stati nel mondo filosofico e scientifico e quindi anche nel campo artistico.
Ho citato la scuola empirista perché tutta la conoscenza deriva dai sensi, e la percezione costituisce anche la base dell’empirismo ed ancora oggi del progresso scientifico. Progresso scientifico che formula ipotesi partendo appunto dalle percezioni che, come dicevo, sono frutto dell’interazione della conoscenza e dei processi inferenziali.

Ho completato la mia riflessione anche su un altro aspetto che mi sembra rilevante per la comprensione degli atteggiamenti delle persone: “L’ attenzione”.
Infatti, non tutte le cose che abbiamo di fronte, ci colpiscono con uguale chiarezza.
Alcune cose rimangono come sfuocate, altre non sono neppure avvertite.
L’attenzione in effetti è il fenomeno psichico di maggiore importanza che ci consente di cogliere le parti del nostro ambiente, le caratteristiche degli oggetti ecc.

L’attenzione è di due tipi:
L’attenzione volontaria: dipende da fattori interni all’individuo.
L’attenzione involontaria: dipende da elementi propri dello stimolo e che lo rende rimarchevole.

Occorre anche tenere conto di un’altra particolarità che interviene nel processo cognitivo : “L’interesse”, in genere suscitato da aspetti che hanno a che fare con la sfera delle attività, passioni, hobbies, necessità ecc.
Alcune altre considerazioni sulla percezione: in particolare modo serve definire cosa si intenda appunto per percezione.
Quel processo mediante il quale noi otteniamo informazioni dal mondo che ci circonda, informazioni che noi abbiamo attraverso gli organi di senso.

Per percepire qualcosa occorre che questo qualcosa esista e che ci siano appunto le condizioni per l’approccio con i nostri cinque sensi.
I fatti della percezione, per la lunga e continua consuetudine che abbiamo con essi, tendono ad apparirci come un fenomeno ovvio ed interamente chiaro (abitudine a vedere il mondo in un certo modo, omologazione, convinzione che esista solo quel tipo di realtà, fissità psicologica , ecc).
Il mondo fisico per non parlare di quello psichico, non è sempre quello che viene percepito.

Paolo Bottai, 2005

La ragione e la passione, 2009

Misura e Ordine

E’ stata per prima la scuola pitagorica, con il suo mitico fondatore, a fare le prime riflessioni sul bello. Essa trasferisce l’ideale della misura da un piano religioso a quello filosofico, prendendo a modello la natura, l’universo considerato nei suoi fenomeni di ciclicità e di uniformità.
Ha cosi indicato alla cultura occidentale per millenni i più chiari e persistenti criteri di bellezza e del suo contrario. La bellezza del kosmo, la precisione di questo assetto spontaneo, doveva essere trasferita sulla Terra nella società degli uomini per insegnare loro a separare il buono dal cattivo, il vero dal falso, il bello dal brutto.

Dal pensiero di Pitagora, culla del razionalismo occidentale, si sviluppa quella trinità tra vero bello e buono che ha dominato la nostra civiltà.
Se il mondo è governato da leggi che l’intelletto e i sensi sono capaci di cogliere e di tradurre reciprocamente, esse sono allora simultaneamente belle e vere, basate su misure calcolabili, armoniche e simmetriche.

Ciò che e vero è dunque bello, ma insieme anche giusto e buono cosi come ciò che è falso è brutto e cattivo. Il buono e bello retto dai principi della giusta misura, dall’equilibrio complessivo dalle leggi della virtù che è “armonia”.
L’idea di un collegamento tra il kosmos e la polis, tra il mondo astrale e quello terreno, verrà rivitalizzandosi in periodo umanistico e rinascimentale (proporzioni cosmiche riprodotte mediante segmenti nel Palazzo di Urbino o il trattato di L. Pacioli sulla divina proporzione).

Dopo una fase barocca di relativo rifiuto, le scoperte dell’astronomia e della fisica provocano una nuova saldatura tra verità bontà e bellezza tant’è che lo stesso Newton dice: “è mai possibile che l’occhio sia stato progettato da Dio senza la scienza dell’ottica?”.

Il primo a mettere in crisi le teorie Pitagoriche è Eraclio, che sostiene al contrario che non vi è ordine ed armonia ma soltanto causalità. Successivamente anche per Platone il vero ed il buono perdono la loro immediata coincidenza con il bello.
Il monopolio della verità e del bene passa alla parte razionale dell’anima mentre il bello, per quanto riguarda l’arte, riflette la cangiante, irrequieta, inconsapevole parte a-razionale dell’anima.

L’arte dà ai fantasmi dei desideri consistenza e credibilità sottratte alle regole del bene e della verità, rappresentando cosi i luoghi dell’anima non rappresentabili, non afferrabili dall’intelligenza.
Il bello, perdendo le sue caratteristiche di calcolabilità intrinseche nella armonia e nella proporzione, finisce per sottrarsi a criteri oggettivi di giudizio.
Si affida a regole soggettive e non facilmente definibili, facendo cadere la barriera tra la forma e l’informe, il visibile e l’invisibile, il suono ed il rumore.
Il bello tende a trovare cosi uno spazio nell’ambito del gusto o dell’immediatezza del sentire, in cui l’elemento di vaghezza cerca un difficile ancoraggio negli standard di gusto che abbiano carattere di universalità o siano condivisibili da parte di una comunità sottoponibile a una educazione estetica.
L’onnipervasivo paradigma dell’oggettività e della calcolabilità del bello tramonta teoricamente con la vittoria conclamata dei diritti del “giudizio estetico”.

Separandosi dall’intellegibile la bellezza (e l’arte) si trasformano in apparenze che non riguardano le verità oggettive bensì unicamente il nostro modo soggettivo di rapportarsi ad un oggetto, l’elevazione estetica del nostro sentimento di piacere.
Cosa è che manca al bello per essere tale una volta soddisfatte tutte le regole formali.
Il primo a trovare una formula soddisfacente è stato Petrarca: egli ha coniato l’espressione nescio quid “non so che”; manca quel non so che tipico del genio.

A partire dal ‘600 l’attività artistica si sposta gradualmente non solo al di la del vero e del falso ma anche del bene e del male; viene sempre più collegata all’immaginazione ed all’intelletto e con ciò alla creatività.

Allontanandosi dall’idea di misura evidente, l’età moderna procede dunque verso l’irrazionalità, l’arbitrarietà e l’indefinibilità del bello, rischiando di rovinare ogni sua perfezione? O cerca una bellezza nuova strana e diversa proprio perché più complessa?


Paolo Bottai, 2005

La mia Venezia, sul filo della memoria

Ricordando Venezia – 18 (2001)

Le opere di questo filone sono il risultato di un processo psicologico che cerco di spiegare più avanti nel quale Venezia risulta il “medium” che libera l’immaginazione e la fantasia.

Venezia d’altronde, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione artistica. Una lunga permanenza che va dal 1965 fino al 1978. Una importante esperienza di gestione della Galleria d’arte “Il Riccio” in Rio Terà San Barnaba, a due passi dall’Accademia di Belle Arti, di cui io ero comproprietario e responsabile artistico. Un legame molto stretto con questa città piena di stimoli, di fervore, di occasioni, di discussioni in un periodo dei grandi fermenti del ’68.

E’ stata l’occasione per fare conoscenze importanti; dal poeta Diego Valeri, al pittore Emilio Vedova, agli scultori Murer e Bertazzolo, insieme a tanti altri che frequentavano la galleria in quel tempo e che hanno contribuito a definire il mio percorso artistico. Poi il sodalizio con questa città e la sua gente si interrompe nello stesso momento in cui finisce il rapporto sentimentale che contribuiva a tenermi legato ad essa. Si è trattato di una cesura netta, praticata nel cuore e nella testa, una rimozione totale e tutto finisce.
I miei interessi si sono spostati in altre direzioni e luoghi e per venti anni non ho più pensato a Venezia, a quello che avevo visto, alle esperienze vissute e nei miei itinerari non c’era più posto per soste casuali o programmate.

Poi all’improvviso, come una diga che cede sotto la pressione dell’acqua, così in maniera dilagante, ossessiva, sono tracimate dai crocevia della memoria un’infinità di immagini, di ricordi di quel vissuto rimosso.
Quello che emergeva era una Venezia fatta di rapide notazioni, di scorci, di angoli, di presenza di chiese, di palazzi, di campielli, di ponti, di rii, una Venezia essenziale, un pò metafisica, immersa in una atmosfera lunare, fredda, dove la vita sembra fermarsi così come la vidi venti anni fa.
Ho tradotto queste perturbazioni dell’anima in immagini usando il mezzo pittorico così come ho imparato a fare.
Ne è venuta fuori “la mia Venezia” che riscopro indissolubilmente presente in me immersa in una atmosfera irreale come se fosse in attesa di un epilogo. 


Paolo Bottai, 2000